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La voce in situazione

Giovanni Fontana

 

Tu. Offri la gola ai tuoi pensieri e sfuma il flusso. Modellalo per bene. Modifica. Come in un aerofono traverso. La colonna d’aria in vibrazione. E filtra. Ecco. Filtra il fiato delle parole. E poi lascia che le oscillazioni si producano. Libere. Al meglio o al peggio. La parte posteriore delle tue micropiramidi è il punto d’appoggio dei muscoli che muovono la glottide. Hai tempo per controllarne la tensione. Che orchestra il corpo vibrante. Uso a dar colpi insospettati nello spazio circoscritto dalle corde e dai prolungamenti nelle apofisi. Ché le parti interne laringali son rivestite da mucosa lieve lieve. Ma tu sfuma. Tu. Su lieve lieve. E filtra il limite in ombra tra corpo corpo e aria. Ché il tessuto forma sui lati del corpo corpo tiroideo due coppie di pieghe cieche. Tu lava le pieghe pieghe. Seguine le streghe. Tu. E goditi il fruscio delle forme. Due rilievi orizzontali nella laringe. Poi mi dirai se son queste le corde corde che spaziano la voce. Poi mi dirai dell’apparato fonatorio. Tu. Evocante gestatorio intrigante. Ché lo spaziamento punta sul vuoto vuoto. E spiazza. È tutta nel tessuto molle e nelle cartilagini la grana. Quella di Barthes[1]. Tanto per capirci.

La voce è materia corporea. Pur se impalpabile. Evanescente. È legata alla presenza d’un corpo pulsante. Palpitante. Avvinta alle vibrazioni prodotte da strumenti vivi. Fatti di carne e sangue. Ecco. Di nervi e cartilagini. Talvolta sorprendente. Talaltra inquietante. Tuttavia sempre unica. Irripetibile. Ché il tono glottidale in micro e macro foniche molecole è ricco di potenzialità. Di virtualità di eventi. Di fioriture armoniche. E incanti assirenanti. Riverberi disvelatori di malie. E creatori di misteri. Si tratta. Qui. Di virtù latenti che innescano movimenti in complessità iperfoniche. In fremiti e onde. Penetranti. E trascinanti. Dove la fondamentale segna dispiegamenti improvvisi. E variegati. Cromatici. Per stralunanti accadimenti. Per flussi di vitalità pregnante. Ché nell’alternanza delle soluzioni tonali stacca la dominante naturale indicando le direzioni possibili del senso. Ma la voce è presenza del corpo. Sotto tutti i profili. «La sua natura è essenzialmente fisica, corporea; ha relazione con la vita e con la morte, con il respiro e con il suono, è emanata dagli stessi organi che presiedono all’alimentazione e alla sopravvivenza»[2]. Così il Bologna. Corrado. Che nel suo Flatus vocis s’avvalse di un prefatore d’eccezione. Zumthor. Che definisce «”vocalità” l’insieme delle attività e dei valori che le sono propri, indipendentemente dal linguaggio»[3]. Mentre la Cavarero. Adriana. Che è filosofa dell’espressione vocale. Afferma che «il proprio della voce non sta nel puro suono, sta piuttosto nell’unicità relazionale di un’espressione fonica che, lungi dal contraddirlo, annuncia e porta a destinazione il fatto specificatamente umano della parola»[4]. Eh no. Adriana. Qui tu tratti di oralità. Non di vocalità. Su cui ci piace. Invece. Costruire plasmi di oscillazioni materiche. Ché il tubo di risonanza ha caratteristiche acustiche proprie e prodigiose. Ché quando la colonna d’aria è in vibrazione non confligge con la mappa della storia. Ma va in gloria. Senza proferir parola. Come in lallazione randagia. In nomadismo glossolalico. In cerca di tempi e luoghi. E allora si producono frequenze variabili. Assolutamente. Decisamente erratiche. Fluttuanti nell’accezione di Lévi-Strauss[5]. E poi. Come dimenticare che Carmelo non faceva che ripetere che in teatro non si può più parlare ma si possono solo cantare parole incomprensibili[6].

Lunghezza. Volume. Giochi di rimandi. Richiami. Rilanci vocali nell’iperspazio della sinestesia. Freschezza o rigidezza dei tessuti in relazione alla forma della cavità. Voce che obbedisce alla Musa. Musa che tocca. Tocca e sbarocca grovigli e corde poliformi. Musa che sbrocca e che balocca. Che scocca la sua freccia come l’amor che attacca di soppiatto. E aderisce alle caratteristiche delle pareti. Previo saltimbocca. E si confà all’ampiezza dell’orifizio. Son queste le caratteristiche fisiche che determinano l’anima del canto. Lo spirto qui dipende dalla materia e dalla geometria. È questione di essenza. Ma è tutta in zucca la scelta della voce. Decisione baluginante. Ché «La voce è […] voler dire e volontà di esistere. Luogo di un’assenza che, in essa, si trasforma in presenza, la voce modula gli influssi cosmici che ci attraversano e ne capta i segnali: è risonanza infinita, che fa cantare ogni forma di materia»[7]. Ecco allora che poi ci si collega alla parola. Manco a dirlo. In un flusso altro. Però. Che non rispetta vincoli. O canoni correnti. Insomma vocevoce. Per dire parole in voce e voci di parolevoce. E questo «voler dire» è rilevato anche da Mladen Dolar quando scrive che la voce «è un suono che sembra in se stesso dotato della volontà di “dire qualcosa”»[8].  Che rileva «un’intenzionalità interna»[9]. «Solo la voce implica una soggettività che “esprime se stessa” ed essa stessa abita i mezzi dell’espressione»[10].

 

Con occhio ben assiderato nella posizione di riposo la lingua scende a zero distesa e piatta nella bocca a labbra aperte e glottide socchiusa. Mentre il tubo risuonatore frotta in fretta per cavità orale inacidita. Che provoca vibrazioni a cinquecento. A mille. A mille e cinque. A due. Due e cinque periodi al secondo. Passo-più-passo-meno. O hertz se preferite. Mediante modifiche di forma. Nel tubo al cubo. Ché inciampa questa lingua. A stracci. Verticalmente. E poi orizzontalmente. Ma arrotondando le labbra. Appizzandole a culetto. In allegretto. Concentrazioni di frequenze rafforzate possono essere spostate su altre bande. Bionde e vertiginose. Senza far versi ai folgoranti istanti dei prodigiosi canti balenanti degli intervocalici evirati per errore di tempi e bende a tamponare le domande quando le suture possono modificare tutte le qualità risonatrici del tubo al cubo.

Il tubo è nudo. E può perdersi nel buco buco dove anch’io cado a volte. Ma nell’intimità multivalente ben si distinguono pecche stecche e cilecche. Mentre nell’apparato fonatorio tu spicci parti e funzioni diverse. Realizzazione d’una corrente d’aria aria. Sorgente sonora responsabile di vibrazioni periodiche. Polimorfe. Risuonatori o cavità superglottidali. Ma ben inteso. La laringe è scatola cartilaginea sede di larve di pensieri. Di fantasmi fecondi. Accoccolati nelle nebbie. È un passaggio stretto mai abbastanza sazio di criteri. Perché la forma tocca la parte superiore della trachea e scocca sussulti in vibrazione. Perché è composta da quattro cartilagini. Sedi di canto. Tutte. Con la cricoide che ha forma di anello e ne costituisce il fondo. Col corpo tiroide ch’è attaccato alla cricoide stessa per mezzo di due corna aperte verso l’alto. Le aritenoidi infine. Che son due piccole piramidi poggiate sul castone cricoideo. Così da poter esser mosse da un sistema segreto di tendini e di muscoli mentre la lingua incanta. Insomma. Tu. Offri la gola ai tuoi pensieri e sfuma le colonne d’aria. E filtra. Filtra il fiato delle parole. La parte posteriore delle tue micropiramidi è il punto d’appoggio dei muscoli che muovono la glottide. Che orchestra il corpo vibrante. Uso a dar colpi insospettati nello spazio circoscritto dalle corde e dai prolungamenti nelle apofisi. Ché le parti interne laringali son rivestite da mucosa lieve lieve. Ma tu sfuma su lieve lieve e filtra il limite in ombra tra corpo corpo e aria. Ché il tessuto forma forma sui lati del corpo corpo tiroideo due coppie di pieghe cieche. Tu lava le pieghe pieghe. E seguine le streghe. Tu. E goditi il fruscio delle forme. Ecco. Due rilievi orizzontali nella laringe. Poi mi dirai se son queste le corde corde che spaziano la voce. Poi mi dirai dell’apparato fonatorio evocante gestatorio intrigante. Ché lo spaziamento punta sul vuoto. E spiazza. È tutta nel tessuto molle e nelle cartilagini la grana grana. Quella di Barthes[11]. Forse. Ma non soltanto quella. Molto di più. Oltre. Tanto per capirci. Oltre la parola. Di qua. E al di là. Oltre. Dove sobbollono di glossolalici universi minori i fonemi in vista del canale oscuro di raccolta di deiezioni spurie. Oltre. Che avvelenano fremiti flebili che si levano dalle discariche fluenti. Dove gli scambi verbali sono annullati nel percolante equilibrio della tempesta dei rumori-voce. Di testa. Di ventre. Di fegato e di gola. Poi mi dirai se son queste le corde corde che spaziano la voce a tutto tondo. Dalla palta al cielo.

E non si pensi che la registrazione possa render l’effetto del vero. La registrazione è un fatto tecnologico. Freddo. Elettromeccanico. Elettrofonico. Magnetico. Digitale. Che non ha vita. Che non rende giustizia alla magia della voce e del soffio. Al ritmo delle pulsazioni che imbastiscono l’ordito. Dove come uccelli si poseranno fonemi e note di respiro. Perché «i poeti cantano». Lo diceva Carmelo[12] che i poeti cantano.  Ché la scrittura è trascinata via dal suo letto di carta. E il corpo ne fa musica. Il corpo. Dunque. Canta la scrittura. La ricanta. La plasma. La modifica. Plasticamente in ghirlande. Sovvertendola fin negli interstizi. Nidificandola. Rilanciandone germi fonetici nello spazio spalancato e controverso. Atomizzati. In grado di permeare l’astante in tutte le molecole.

La voce. Non pura vibrazione. Ma vibrazione impura. Contaminata dalla situazione. Voce che affoga nel testo e che dal testo emerge. Grondante. Rorida di strass fonemici e fonetici. Sequenze di mutazioni pendolari. Laboratorio perenne. Fucina. Crogiolo. Processo alchemico in cui conta il fare. Fare come ricercare. Senza limiti temporali. In un flusso perenne. Ecco. Che reinventa e risponde alla formatività[13]. Che fa e fa e mentre fa inventa i modi del fare. Che destabilizza il testo. Lo riespone. Esatta la capacità di riconversione. Costante. Visitato e sollecitato da stimoli ciclici. Pendolari. Guarda. In un gioco altalenante. Che è puro godimento. Che è godimento del corpo e della mente. Godimento della parola in voce. Che si sublima nella voce voce. Ricorrente. Che si fa sottile nell’evanescenza vibratile. Senti. È un dialogo con sé stessi. Di voce in voce. Di voce in testo. Senti. Di testo in voce. Di voce in eco. Guarda. Di eco in voce. Di voce in testo. Di eco in eco. Di voce in voce. Altalenandosi così nell’infinito non finito. Nello specchio sonoro del delirio narcisistico. Che è mutamento dinamico. In progress. Di ciò che ingannevolmente appare immobile. Ma che dietro l’apparente immobilità nasconde vortici. Prospettive sonore. Rilanci reiterati. E nello stesso tempo conserva spettri di memoria. Di memoria in memoria. Ed è così. Allora. Che si fa mostro magmatico strasecolante. Ed è da lì che pesca il poeta. Guarda. Che gioca ogni volta la carta della formatività con gesto vocale. Animale. Ancestrale. Esponenziale. Abissale. Che sprofonda in quel vortice. Frattale. Testuale. Che cattura. Che ripesca. Che rintraccia suoni rinnovati e li ricanta. Li rilancia in situazione. È un gesto che moltiplica e che cancella. Che nega la parola per ritrovarne l’essenza. Che ritesse anime in trame sonore. In flussi di variazioni sostenute dai fatti. Sostenuti dall’essere qui e ora. Sostenuti dall’essere stati. Dall’esserci stati. Dall’esserci e dal divenire. Dall’essere. Fino in fondo. Dall’essere poeta. Dall’essere voce. Dall’essere voce che scrive. Scrivente. Amante. Attestante. Afferente. Fluente. Sulle basi di un occhio sinestetico che legge e rilegge. È il gioco del pendolo che distrugge. Logora e ricostruisce. Che regge. Alimenta. Che nutre sempre lo stesso fantasma che ha sostanza di memoria e di progetto indicibile. Fantasmaticamente uno dai mille volti. In progressivo slancio. Strutturalmente vivo. Dai mille volti voce. Di voce in voce. Di lancio in rilancio. Per dire l’indicibile travolgendo fonemi nel flusso vocale. E nidi di parole. Di petto. Di gola. Di testa. Lavorando di lingua e di diaframma. Di labbra. Di naso. Di denti e di palato. Con tutta la fisica degli apparati. Il respiro. Il respiro. Il respiro.

 

I Garnier plasmavano il soffio. Ilse e Pierre. Per i Garnier uno dei fondamenti della poesia era il «respiro». Le «souffle». Respiro che «trasforma il corpo in luce»[14]. Realizza la metamorfosi del «sangue pesante»[15] in fluido etereo. Il respiro è un elemento di comunione tra corporeità e incorporeità. Il respiro-souffle consuma i corpi. E l'universo poetico è dato dallo svuotamento dell’universo stesso. È necessario allora reinventare il corpo. Scrive Pierre: «Io chiamo poesia la conoscenza del respiro»[16]. Poi. «Respiro, dunque l'universo è […]. E se l'universo è, posso reinventarmi»[17]. Reinventarmi come parte dell'universo che io stesso ho progettato. Ascolta. L'energia del respiro e il potere del respiro danno al poeta la possibilità di creare nuovi universi. Ed ecco la «Sonie». Una nuova arte del suono deve superare la barriera linguistica per riscoprire l'energia del linguaggio. La «Sonie» deve rinunciare all'espressione per trasformarsi in energia pura.

Per Garnier il respiro è un’essenza malleabile e significativa. Il respiro non è usato in senso riduttivo. Al contrario. Deve amplificare spazi e ampliare gli orizzonti. Dal respiro possiamo reinventare un linguaggio. Dal respiro può nascere un altro corpo. Un'altra mente. Un’altra lingua. Un altro pensiero. «Posso reinventare un mondo e reinventare me stesso»[18]. Liberando la poesia dal suo peso. Dal peso delle frasi e delle parole. Il respiro. Che è energia. Vibrazione. Ondulazione. Radiazione. Nel suo «Souffle Manifeste» (1962) [19] Garnier parla di «combustione dei corpi». Dice che «Il respiro soffia sui corpi e li consuma… perché tutto accade qui… qui tutto si crea e si disfa… è il luogo dell'essere e del non essere… corpo e spirito». Mi vien da credere che in questa prospettiva Pierre Garnier abbia pensato a Giordano Bruno. Al suo concetto di «spiritus» come soffio vitale. Come respirazione universale.

Pierre cattura tutta la «magia» del respiro come sostanza sonora. Lo fa col magnetofono. Che tanta importanza ha avuto nella poesia sonora degli esordi. E non si accontenta. Aspira ad altri intangibili universi creativi. «Ora posso aspettare. Aspettare che nuove macchine mi permettano di lavorare con un respiro più profondo del respiro stesso, con energie e onde»[20]. Prevede l'esplosione di un nuovo universo tecnologico. Di una nuova civiltà in cui le onde e le vibrazioni saranno considerate come un mezzo comunicativo diretto. Senza «la pesante intermediazione del linguaggio»[21]. Andando oltre l'idea stessa di oggetto sonoro. Come se pensassimo a un mondo di silenzio. Un mondo situato oltre i limiti del suono. Dove. Così come osserverà Nancy a proposito del rapporto tra corpo e pensiero. La parola «si sfuma prima di essere detta»[22]. Dove la «voce non è linguaggio, né vocabolo, né vocalizzo, né vocale. Simile, dunque, al dialogo silenzioso dell’anima con se stessa, ma né dialogo, né monologo, soltanto estensione dell’anima, schema senza significato, aerea, misura, scansione, ritmo»[23]. Dove il respiro rappresenta la frontiera. Dove possiamo sfruttare cariche elettromagnetiche del corpo e vibrazioni telepatiche della mente per raggiungere risultati comunicativi singolari. Empatia telestetica. Un mondo immateriale. Pura energia. Dove i soggetti si perdono nella purezza del flusso della comunicazione.

Dire l’indicibile. Insomma. Travolgendo parole nel flusso vocale. Di petto. Di gola. Di testa. Lavorando di lingua e di diaframma. Di labbra. Di naso. La fisica degli apparati. Il respiro. Il soffio. Il soffio. La voce sottile. Che può anche affogare nel testo e dal testo riemergere. Grondante. Rorida di strass fonemici e fonetici. Sequenze di mutazioni pendolari. Laboratorio perenne. Fucina. Crogiolo. Processo alchemico dove conta solo il fare. Più che il dire.

Ma come fare. Come muoversi. Come aggrapparsi al pendolo. Come acconsentire alla spinta. Sotto vento. Affinché l’oscillazione sia produttiva. Di crescita in crescita. Dove il gioco è leggero. Singolarmente «epigenetico»[24]. Ché la biologia s’annida nella poesia. Ché la poesia è biologica. E logica a suo modo. Nel rigore della scienza. Ma sorprendente e illogica secondo la griglia convenzionale del linguaggio. È un andamento pendolare tutto tra il dire e il fare. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. E in quel mare bisogna affogare sé stessi per rinascersi diversi con la coscienza di essere noi stessi. Noi. L’altro. Tu. L’altro. Noi. Sé. In un teatro acustico fantasmagorico. Molteplice. Dove le parole si susseguono alimentando le immagini e i colori che si portano dentro. Dove le parole distendono le loro ombre sulla materia sonora lasciandosi trascinare in luoghi dello spazio-tempo per denudarsi e sgranarsi. E poi nebulizzarsi. Per impregnare la pelle dello spettatore. Dove la parola si fa respiro di contatto. Pelle pelle. Tatto tatto. Dove il respiro del poietes è anche quello dello spettatore. Per respirare in unica nuvola sonora. Respirare insieme le parole-voce. In un soffio uno. In un tempo sospeso. Tempo che scorre dentro una bolla acustica speciale. Metamorfica. Cangiante. Dove c’è offerta di nuovo suono. Epigeneticamente affacciato sul pre-testo. Appena appena rinnovato. E che tende a rinnovarsi nell’ascolto della propria voce. Autopoietica. Attraverso quella del performer che la impalma. In doppio e triplo vortice. Fino all’ennesimo. Ché l’artifex nel progetto verbale ritorna ad essere poietes. Libera scritture a getto d’inchiostro così misere sulla superficie del foglio e tanto preziose nello spazio tempo. Nella rinascita del soffio. Che si fonde alle vibrazioni dell’ambiente in una nube di particelle elementari. Bosoniche e fermioniche. Pullulando i soffi e penetrando guizzanti tra fonemi in frantumi e sogni d’ossa in movimento per scelta e per condanna. Non più il principio dell’identità. Ma la trasgressione che deforma e trasforma e plasticizza. Espansioni e contrazioni. Di gluoni e quark. Nella giostra pneumatica. O che forse è costituzione di un mondo di stringhe in fremito e sussulto nello spazio pluridimensionale «i cui modi di vibrazione costituiscono le particelle elementari»[25] proprio come nella teoria delle stringhe che «riduce la realtà a un’orchestra cosmica di strumenti […] e l’apparenza sensibile alla sinfonia universale da essa eseguita»[26].

 

Produzione di realtà. Dunque. E non recitazione o rappresentazione. Riscrittura impalpabile. Invenzione. Percorsi verso un’esistenza nuova. Percorsi dietro specchi. Su un fronte che è un retro. Retro. Retro. Come diceva Costa[27]. Retro. Il. Retro. Indagare il retro. Questo l’imperativo. Che. Nessuno osserva. Cosa. Che nessuno fa. Che. Nessuno vuole fare. Nonostante i ripetuti inviti di Corrado nessuno ha girato il nastro di quel suo poema. Perché il gioco era scoperto. Il retro era in realtà il davanti del retro. Ed ecco allora che la manovra per la sottrazione del senso in quell’occasione era riuscita in pieno. Via il senso verso un senso altro. Verso un di-verso. Ridire il dire. Allora. Ricostruire la lingua. La lingua della poesia. Ed ecco. Allora. La mia poesia. Ecco la mia azione. Ecco la mia performance. Ecco la mia ricostruzione dell’universo. Ecco. Un universo mio da mettere in ballo. Da porre in gioco. Dove la voce è in situazione. Oltre ogni rappresentazione. Dove la voce è corpo. Il mio corpo. E c’è da sprofondare nel testo per venirne fuori come corpo sonoro. Che si rituffa nel testo per rivenirne fuori. E c’è da sprofondare nel testo. Per venirne ancora fuori. Fuori. Come corpo sonoro. Che si rituffa nel testo. Per rivenirne fuori. E c’è da sprofondare. Nel testo testo. Per venirne di nuovo fuori come corpo sonoro. Che si rituffa nel testo. Per rivenirne fuori. Corpo che si espande come suono e si annida nel testo. Dunque. Un testo che cresce come cresce il corpo. Che si modifica come un corpo. Che si espande come si espande il corpo. Il mio corpo nell’abbraccio totale. Nella distesa temporale. Nella sua condensazione. Nella sua sublimazione che si perde nel pre-testo. E che da esso rifluisce. Sgorga. Da una Fontana malata di convulsioni elettrostatiche. Bioelettriche. Epigenetiche. Atomizzanti.

È l’energia dissipata da un corpo discontinuo. Che si raccoglie in bolle di memoria da rifondere per riflessi potenziali. Con variazioni interattive. Inter/attive. Esuberanti. Variattive. Nello scambio formale. Nel ricambio graduale. Vis viva. Operativa. Nell’oscillazione pendolare tra energia cinetica e energia potenziale e viceversa. Ché nel balletto acustico deflagra in momenti entropici e scommette sulla neghentropia. In equilibrio autopoietico.

Il dire dire. Allora. È costruire il dire sul detto. A tutto dire. Sotto il tetto di un testo progettato tessendo parola per parola e risonanze che dai più reconditi meandri del corpo salgono in suso. Su. Su. Verso la gola. Dove la lingua che per due terzi è nel cavo orale e per un terzo nella faringe ha struttura prevalentemente muscolare. Con rivestimento mucoso. E batte. Dove il dente duole. E sfida le gole su parole vive.

È l’apparato fonatorio. Evocante. Gestatorio. Intrigante. È lo spaziamento che punta sul vuoto. Infido. Ma a conti fatti il luogo del travaglio tempera meccaniche ché la lingua impenna. Ché mala ugola ambiziosa può cantare controvento nel megafono di tempi ramazzati. Ma sul colmo dell’evento. Finché il giro monti il senso ad occhio. Nel vuoto molecolare. A tutto fiato. Nel tubo di risonanza. Nell’ordine del corpo. Sul retro della linguaaa. La cordaaa. E sotto. Sotto. Dove li vapor del ventre tira in susooo. Molecoleee. E grumi subatomici. Per corde vocaliii. Nel plessooo. In abissooo. Ché incorporano spazio con flusso retroversooo. In ogni direzione. È riflussooo. Lasso. Escisso ogni impedimentooo. Successo sicuro e cadenza d’ugola d’asso. Ecco.

Glottide modellata ad hoc. Tubo in risonanza d’onda. Con baldanza d’echi a tutta. Ma verso un bacio rugoso di cuore e liscio liscio di lingua. E cosmico. Con danze in voce e semenze sonore agghindate. Del resto sappiamo che la sostanza fonica domina la semantica. Per nuove consonanze in punta di lingua lingua. Lingua con o senza luce. E il tubo va ad effetto. E sì che va. E sì che va. Ma sì che va. Nell’unicità vocalica. O per labbra ebbre sgombrando aspettative incerte. E va. Offrendo significanti. E elaborandone. Ché il tono trans glottidale sconta l’indicibile. Che va. Trascinatore di scambi emozionali e passionali. Funzionali e carnali ad ogni minima occorrenza. Va. Scherzo che impegna ritmi opposti in funzione del suo pubblico. Così che verba manent nel cuore dell’ascoltatore. Sul bordo della lingua lingua. Che va. Che va. Con il pensiero al limite. Va. Son temi oscuri. Ma centrali.

E non mi si venga a dire che la voce riprodotta abbia lo stesso spessore e valore della voce viva. L’acusmatica tecnologica è solo documento. Freddo. Meccanico. Elettromeccanico. Elettrofonico. Elettronico. Numerico. Distante. Memoria. O illusione. Fatto o artificio. La voce senza corpo è sempre artificiosa e artificiale. È del tutto ingannevole. Come quella che illude il cane della «Voce del Padrone». Storico marchio discografico che ha preteso di sottolineare la fedeltà della riproduzione. Mostrando il cane fedele al Padrone ingannato dalla sua voce riprodotta[28]. Ma la voce viva è corpo pulsante. Generata dalle sue cavità organiche. Quando i discepoli di Pitagora ascoltavano la sua voce acusmatica avevano comunque coscienza di un corpo palpitante dietro la tenda che lo nascondeva agli occhi.

Quando l’impalpabile vocale è messo in relazione con il dato tangibile: il pre-testo: che ha contribuito a realizzarlo: c’è risonanza. Come nella «Rétroaction onirique» del mio amico Jacques Boutonnier. Processo complesso che si verifica «quand un rêve est mis en presence du réel concordant qu’il a contribué à créer : rêve et réel entrent en résonance et s’accordent ensemble aux vibrations de l’univers d’un effleurement qu’ils intègrent en ses confins»[29].

Altro è la registrazione. Il documento. Storia dove la phoné si fa traccia di sé. Altro ancora è quando il sistema di registrazione è processo creativo. Strumento di modellazione acustica. Altro mondo. Altre prospettive. Altre. Altre. Perché questa è tutta un’altra storia.

 

 

Bibliografia

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[1] Vd. R. BARTHES, L’ovvio e l’ottuso, Torino, Einaudi, 2001.

[2] C. BOLOGNA, Flatus vocis, Bologna Il Mulino, 1992.

[3]  P. ZUMTHOR, Prefazione a C. Bologna, Flatus vocis, cit. p. 9.

[4] A. CAVARERO, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Roma, Castelvecchi, 2022, p. 21.

[5] C. LÉVI-STRAUSS, Introduzione all’opera di Marcel Mauss, in Teoria generale della magia e altri saggi, Torino, Einaudi 1965, pp. XLVII-XLVIII.

[6] Si veda F. QUADRI, Colloquio con Carmelo Bene. Il teatro degli anni settanta. Tradizione e ricerca, Einaudi, Torino, 1982.  Ora in C. BENE, Si può solo dire nulla. Interviste, a cura di L. BUONCRISTIANO e F. PRIMOSIG, Milano, Il Saggiatore, 2022, p. 614.

[7] P. ZUMTHOR, La presenza della voce, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 7-8.

[8] M. DOLAR, La voce del padrone. Una teoria della voce tra arte, politica e psicoanalisi, a cura di L. F. CLEMENTE, Napoli-Salerno, Orthotes, 2014, p. 25.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] Vd. R. BARTHES, op. cit.

[12] F. QUADRI, I poeti cantano, non recitano. Abbasso il teatro. Conversazione con Carmelo Bene, «Il Manifesto», 17 febbraio 1979. Ora in C. BENE, Si può solo dire nulla. Interviste, cit. p. 584.

[13] L. PAREYSON, Esistenza e persona, Il melangolo, Genova 2002, p. 209.

[14] P. GARNIER, Un art nouveau : la sonie, in «Les Lettres», n° 31, 1963, pp. 37.

[15] Ibidem, p. 37.

[16] Ibidem, p. 38

[17] Ibidem.

[18] Ibidem.

[19] P. GARNIER, Journal de composition de la Sonie n° 2 – Souffle manifeste – enregistrée le 18, 19, 29 1963, testo incluso in Un art nouveau : la sonie, cit.

[20] P. GARNIER, Un art nouveau, cit. p. 38.

[21] Ibidem.

[22] J.-L. NANCY, Corpus, Napoli, Edizioni Cronopio, 2004, p. 94.

[23] Ibidem.

[24] «La poesia muove dal pre-testo, si espande nello spazio-tempo e ritorna al pre-testo, arricchita di esperienze e di memorie. Ogni volta nuova, ma sempre uguale a sé stessa. In un gioco di lanci e di rilanci, dove la formatività, quel nesso inseparabile di invenzione e produzione, aggiunge e toglie voci e gesti, smonta le parole, le aggiunge, le cancella, le ritaglia, in quel continuo riformare, riconfigurare, che è il fare della poesia d'azione: quel tal fare che, mentre fa, inventa il modo di fare. Tanto che il pre-testo, agli occhi del poeta, mostra la sua vecchia faccia sempre rinnovata, sempre pronta a suggerimenti diversi, per la costruzione di azioni diverse in vista di ri-scritture diverse. Il poliartista ne è, dunque, l’artefice e l’attante. Grazie al suo gesto, alla sua energia, alla sua continua pressione, l’organismo poetico subisce processi successivi di riorganizzazione secondo itinerari pluridirezionali ed è sottoposto a una progressiva modellazione plastica, tanto che, rispetto alla struttura “genotipica” della partitura, si può parlare, per le fasi evolutive spazio-temporali, di poesia epigenetica». G. FONTANA, Epigenetic poetry. Epigenetic Poetry (a cura di P. PETERLINI), con saggi di M. BATALLA, J. BLAINE, G.FONTANA, B. MEAZZI, P. PETERLINI, M. SIMON-OIKAWA, G. SUZANNE, C. TRON, Ravenna, Danilo Montanari Editore, 2020, p. 51-53.

[25] P. ODIFREDDI, Le menzogne di Ulisse, Milano, Longanesi 2004, p. 51.

[26] Ibidem.

[27] C. COSTA, Retro, in «Baobab», n° 21, Italia 1990-91, marzo 1992. Si veda anche G. FONTANA, Di certi attraversamenti. Sulla poesia di Corrado Costa, in «Avanguardia», n° 35, anno 12°, Ed. Pagine, Roma, 2007.

[28] Si veda M. DOLAR, La voce del padrone, Napoli-Salerno. Orthotes, 2014, pp. 90-98.

[29] J. BOUTONNIER, Les os rêvent, Limoges, Dernier Télégramme, 2022, p. 725.